Alzi la mano chi, da fiero utilizzatore della domotica, magari basata su HUB personali integrati sui propri smart speaker, non si sia trovato a chiedere l’esecuzione di un comando vocale in un ambiente diverso dal proprio, solito, domestico.
“Alexa, accendi le luci“, quando in realtà ci si trova in ufficio. Capita.
Talvolta invece ci si trova in impasse quando si verifica un temporaneo malfunzionamento di uno degli elementi della catena logica che permette (sperabilmente in modo corretto) di utilizzare gli smart speaker con la propria domotica: quando si innalza livello di automazione e di gestione intelligente della propria abitazione, la sola idea di accendere una luce, regolare un climatizzatore, governare delle scene complesse facendo il tutto a mano diventa quasi un’eresia. Per carità, si vive anche senza tutto questo, ma quando ci si abitua è obiettivamente difficile tornare indietro. C’è chi addirittura estremizza: non installo più inestetici interruttori murali perché, tanto, ho la domotica che mi permette di fare tutto verbalmente, al più tramite interfaccie come smartphone e tablet.
Un po’ too much, ma tant’è.
Ci si intenda: noi di inDomus, per primi, promuoviamo la smart home DIY proprio perché sappiamo quanto possa essere robusta, affidabile, divertente, efficiente – e chi più ne ha più ne metta. Ma siamo sicuri di quale si il limite tra beneficio e dipendenza? Siamo sicuri di non superarlo?
Si passa facilmente da un estremo all’altro: a fine anni ’90 molti non volevano sentir parlare di telefonia cellulare; oggi invece ci siamo ridotti – in alcuni casi – a gobbi individui costantemente chini sul proprio smartphone pur di comunicare col prossimo, per lo più ingnorando quello a portata di braccia (altro discorso in materia sociologica che non affronteremo qui). Bene, per la smart home non crediamo sarà molto diverso: oggi molti partono dalla classica piccola lampadina controllata in modo intelligente, per poi arrivare (ed è sano!) a sistemi come Home Assistant i quali, progressivamente, portano la casa ad essere viva ed efficiente come mai.
Ma quando l’impossibilità di controllare la propria casa nei minimi dettagli diventa fonte d’ansia? Che fare?
Sì, perché molti (forse anche tu che leggi) tendono a scivolare progressivamente – ed è umano e naturale – in quel gorgo inconsapevole per quale non controllare ogni 10 minuti il proprio/i profilo social causa ansia: è l’incubo disconnessione, o nomofobia. Non vediamo dunque perché, in un certo qual modo, sapere costantemente quanti KWh abbia consumato il frigo non possa dare alla lunga la stessa, inconsapevole dipendenza. Lo vediamo spesso e volentieri in alcuni gruppi Facebook dedicati al tema nei quale, fieramente, alcuni pubblicano screenshot di improbabili pannelli concepiti per tenere sotto controllo i dettagli più minuziosi e inutili relativi alla propria abitazione. Un po’ onanismo, un po’ ricerca di approvazione, un po’ espressione del fenomeno di cui sopra: costante bisogno ansiogeno – spesso inutile – di informazione.
Già anni fa Anna Tinti dell’azienda SAP ha trattato il tema, nell’articolo “Smart Home or Smart Addiction? A Love-hate Relationship” (ispirazione di questo nostro), dal punto di vista del limite legato all’effettiva utilità (ampissima) della domotica rispetto alle dinamiche psicologiche date dalla dipendenza di controllo e informazione. Accedere alla propria casa (anche visivamente, tramite telecamere) è fonte di tranquillità o piuttosto di ansia, quando e se, per qualche motivo, smettono di funzionare? Si noti che il pezzo della Tinti ha già svariati anni, quindi la situazione non può che essere “peggiorata” su tanti fronti.
Saranno i bambini a salvarci? Cresciuti in un mondo in cui controllare la casa con dei comandi vocali è la normalità, svilupperanno forse da sé la capacità di utilizzare al meglio tali strumenti. Così come per la generazione che mediamente consulta questo sito (dai 30 ai 40 anni di media) ha imparato a usare senza particolari patemi né psicopatie strumenti alieni ai propri genitori, ma scontati per essa, anche i bambini di oggi saranno adulti forse più sereni di noi in futuro, più consapevoli e a proprio agio con le tecnologie attuali. Di certo, tutelarli dall’abuso di tecnologia è un dovere, ma anche su questa soglia ci fermiamo senza varcarla perché non propriamente nelle nostre corde.
Fatte queste considerazioni, proviamo a tracciare una conclusione.
Dobbiamo sentirci mentalmente atrofici perché non associamo più il posizionamento dell’indice sull’interruttore all’accensione della luce? No. Si tratta di evoluzione, gente, e non bisogna temerla, ma semmai cavalcarla cercando al contempo di non finire disarcionati. Quella della smart home è una grande tecnologia, che ogni giorni di più prenderà piede nelle case di ognuno come l’ha fatto a suo tempo Internet, come prima ancora la TV, come prima ancora l’elettricità e via così. Queste sono tecnologie qui per restare – ed evolvere, e noi con loro.
La riflessione – personale, s’intende – che ognuno crediamo debba fare è quella di “quanto sono dipendente, mentalmente, dalla domotica“. Non c’è niente di male nell’usarla, abusarne invece sì. Se vi trovate sdraiati su una spiaggia di Thoondu e sentite il bisogno compulsivo di aprire Home Assistant sul cellulare per verificare quale sia la temperatura media del bagno degli ospiti nella seconda casa di Treppalle (ridente località in provincia di Sondro, btw), credeteci sulla parola: c’è un problema. Poi per carità, ce ne sono di peggiori. Cercate però di far caso alla cosa e rifletteteci.
Dopodiché, tuffatevi in acqua, alla faccia della redazione di inDomus.
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